1550 ?: UN RENDEZVOUS IN AVEROIGNE

         (A Rendezvous in Averoigne, Aprile/Maggio 1931)

 

Gerard de L'Automne stava cercando le rime per una ballata dedicata a Fleurette, mentre procedeva su un sentiero ricoperto di foglie verso Vyones attraverso l'Averoigne. Fleurette gli aveva promesso un appuntamento segreto fra le querce e i faggi, proprio come una contadinella, e Gerard era talmente ansioso di raggiungerla, che faceva più progressi nel cammino che nella ballata. Si trovava in quello stadio amoroso in cui, anche per un abile cantastorie com'era lui, era più facile essere presi dalla distrazione che dall'ispirazione.

Gli alberi e l'erba avevano assunto il lucido smalto di un maggio medioevale e il sottobosco era pieno di fiori azzurri, bianchi e gialli, intrecciati come un complicato ricamo; un ghiaioso ruscello costeggiava il sentiero e mormorava, come la voce di ondine che parlano deliziosamente attraverso l'acqua. L'aria, cullata dal sole, era accarezzata da un soffio di romanticismo idilliaco, e il desiderio che sgorgava dal cuore di Gerard si amalgamava con gli esotici balsami del bosco.

Gerard era un menestrello che, dopo anni di vagabondaggi di corte in corte e di castello in castello, era ora rinomato e famoso. Attualmente era ospite del Conte de la Frênaie, il cui castello dominava sulla foresta circostante.

Un giorno, visitando la caratteristica Cattedrale di Vyones, che non dista molto dall'antica foresta dell'Averoigne, vide per la prima volta Fleurette, figlia di un agiato commerciante che si chiamava Guillaume Cochin. E si scoprì innamorato della sua bionda bellezza piccante, più di quanto ci si aspetterebbe da un tipo come lui che solitamente era abbastanza suscettibile in materia.

Aveva fatto di tutto per farle conoscere i suoi sentimenti e, dopo un mese di bigliettini amorosi, di sonetti e di colloqui furtivi, con l'aiuto di una compiacente governante, Fleurette aveva combinato questo incontro segreto approfittando dell'assenza del padre da Vyones.

Accompagnata dalla sua governante e da un domestico, avrebbero dovuto incontrarsi sotto un vecchio ed enorme faggio nelle prime ore del pomeriggio.

Gli accompagnatori si sarebbero discretamente allontanati, e gli innamorati avrebbero finalmente potuto stare insieme da soli; non avrebbero corso il pericolo di essere visti o disturbati, poiché quel nodoso e centenario bosco godeva, fra i paesani, di una cattiva reputazione.

In qualche luogo della foresta esistevano le rovine del Castello di Faussesflammes che si credevano infestate dagli spiriti; e, inoltre, vi era la doppia tomba sconsacrata nella quale giacevano da più di duecento anni il Signore Hugh di Malinbois e la sua castellana, noti ai loro tempi come Stregoni.

 

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Su di loro e sui loro fantasmi si narravano spaventose leggende; e si diceva inoltre che l'Averoigne fosse infestata da lupi mannari e spiriti maligni, streghe, diavoli e vampiri. Ma Gerard non aveva dato eccessiva importanza a quelle chiacchiere, tanto più che pensava che quelle creature non si sarebbero rivelate nella piena luce del giorno; anche Fleurette, nella sua leggerezza, non aveva dimostrato alcun timore, ma aveva dovuto promettere una generosa ricompensa ai due accompagnatori affinché passassero sopra alle loro superstizioni.

Gerard, camminando sul sentiero illuminato dal sole, aveva completamente dimenticato le leggende sull'Averoigne; si stava avvicinando al luogo dell'appuntamento che presto si sarebbe rivelato al di là di una svolta e, all'idea che Fleurette si trovasse già sul posto, sentiva i polsi tremare e pulsare. Abbandonò ogni tentativo di continuare la ballata che, in tre miglia di cammino da La Frênaie, non aveva fatto alcun progresso e si era bloccata più o meno alla prima stanza.

I suoi pensieri erano quelli che si addicevano ad un impaziente e ardente innamorato. Furono improvvisamente interrotti da un lungo ed intenso urlo di paura e terrore, che si levò da una quieta macchia di pini lungo la strada. Impietrito, guardò verso gli alberi, e sentì lo scalpiccio di passi di corsa e il rumore di corpi che s'azzuffavano; nuovamente si alzò il grido angoscioso di una donna in pericolo.

Sfoderando il pugnale ed impugnando più saldamente un bastone di carpine che si era portato appresso contro le vipere che infestavano l'Averoigne, si gettò senza esitazione nella boscaglia nella direzione da dove proveniva il grido.

In una piccola radura fra gli alberi, vide una donna che lottava contro tre malandrini di eccezionale brutalità e dall'aspetto diabolico.

Anche nella confusione e nella violenza del momento, Gerard notò che non aveva mai visto prima né la dama né gli uomini.

La donna indossava un abito verde smeraldo simile al colore degli occhi; il viso, dalla bellezza di fata, aveva il pallore delle cose morte, e le labbra erano livide, come se tutto il sangue ne fosse defluito. Gli uomini erano scuri come mori, con occhi obliqui rossi come il fuoco sotto cespugliose sopracciglia da animale. C'era qualcosa di strano nella forma dei loro piedi che al momento non riuscì ad individuare; solo più tardi si ricordò che avevano estremità caprine, anche se si muovevano con estrema velocità. Ma non riuscì mai a ricordare gli abiti che indossavano.

Appena lo vide, la donna gli rivolse uno sguardo disperato, mentre gli uomini non parvero accorgersi della sua presenza ed anzi, uno di questi afferrò le mani che essa protendeva verso il suo salvatore.

Impugnato il bastone, Gerard diede un tremendo colpo sul capo di quello che era più vicino, ma sembrò aver colpito l'aria, e lo spostamento lo fece sbilanciare e gli fece perdere l'equilibrio. Strabiliato e annichilito, si accorse che   il   gruppo  era   completamente  svanito;   o  meglio,  i  tre  uomini  erano

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scomparsi, mentre, tra i rami di un pino al di là della radura, vide il pallido viso della donna che gli sorrideva con vaga e imperscrutabile furbizia, prima di scomparire fra gli alberi.

Gerard si sentì rabbrividire; si fece il segno della croce perché aveva capito che era stato raggirato da demoni o fantasmi animati da mali propositi; era stato perso da un incantesimo e pensò, allora, che ci doveva essere qualcosa di vero nelle leggende che aveva sentito sulla cattiva nomea di cui godeva la foresta dell'Averoigne.

Si diresse verso il sentiero che aveva abbandonato ma, quando cercò il punto in cui era quando aveva udito il grido, si avvide che il sentiero non esisteva più, né più esisteva quella parte di foresta che ricordava e che avrebbe riconosciuto. Il fogliame in alto, sopra di lui, aveva perso il suo verde brillante ed aveva assunto un aspetto triste e funereo, mentre gli alberi stessi erano diventati simili a cipressi già investiti dall'autunno. Davanti a lui, in luogo del ruscello cristallino, c'era uno stagno di acque scure e dense come sangue raggrumato sul quale dondolavano falaschi autunnali simili a capelli di suicidi, e vimini imputriditi che si attorcevano su di loro.

Indubbiamente, era stato vittima di un incantesimo diabolico e, accorrendo al grido di aiuto, si era esposto all'adescamento di un qualche potere satanico. Non poteva capire da dove veniva quella forza demoniaca che lo aveva guidato in tal modo, ma comprendeva che la sua situazione era carica di minaccia soprannaturale. Impugnò il bastone più saldamente e pregò tutti i santi che conosceva affinché il pericolo diventasse almeno reale e tangibile.

La scena era silenziosa e senza vita, simile a un posto dove i cadaveri si possono dare appuntamento con i diavoli. Nulla si muoveva, tutto era immobile; non c'era fruscio di erba o di foglie secche, nessun cinguettio di uccelli, né sospiro o gorgoglio di acqua. Il cinereo cielo sembrava non essere mai stato toccato dal sole, e la luce immota pareva non avere sorgente né fine, senza bagliori né ombre.

Gerard si guardava attorno con occhi acuti e ciò che vedeva non gli piaceva, perché al suo sguardo apparivano dei particolari sempre più sgradevoli. Luci fluttuavano attraverso il bosco e, non appena osservate, improvvisamente svanivano; visi di morti annegati apparivano e scomparivano nello stagno e, prima che riuscisse a distinguerli, si volatilizzavano come bolle evanescenti.

Guardando oltre l'acquitrino, si domandò come aveva fatto a non accorgersi del castello turrito di grosse pietre, le cui mura più vicine quasi si appoggiavano sulle acque morte. Era così grigio, così immenso, così incombente, che sembrava esistesse da secoli in mezzo alle acque stagnanti e al grigio plumbeo del cielo. Era più antico del mondo, più vecchio dell'aria; coetaneo della paura e dell'oscurità, e l'orrore dimorava fra le sue crepe, invisibile ma palpabile.

Non c'era alcun segno di vita e nessun stendardo sventolava dalle sue torri o dai suoi spalti; ma Gerard capì, come se una voce glielo avesse urlato, che lì si trovava la fonte della stregoneria che lo aveva ingannato.

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Gli parve di sentire uno sbatacchiare di ali, come una incombente minaccia in arrivo: preso da un crescente panico, si voltò e fuggì attraverso gli alberi scheletrici.

Pur nella sua angoscia e nel suo terrore, il suo pensiero andò a Fleurette, e si chiese se lo stava aspettando nel luogo dell'appuntamento o se anche lei con i suoi accompagnatori fosse in balia di qualche situazione demoniaca. Rinnovò le sue preghiere e implorò i santi per la loro salvezza non meno della sua.

La foresta attraverso la quale correva era un labirinto di ostacoli e misteri, senza confini o tracce di uomo o di animali. Gli scuri cipressi e gli alberi autunnali diventavano sempre più fitti come se qualche malignità li avesse schierati appositamente per intralciargli il cammino; i rami erano come braccia implacabili che s'allungavano a trattenerlo, e avrebbe giurato che s'attorcigliavano attorno a lui con la forza e la flessuosità di cose vive; li combatteva, disperatamente, e gli parve che da loro provenisse un'infernale risata.

Alla fine, con un sospiro di sollievo, s'imbatté in un sentiero. Corse come un folle lungo il passaggio nell'assurda speranza di giungere a salvarsi ma, dopo un breve intervallo, si ritrovò nuovamente davanti allo stagno, sul quale continuava a dominare il castello senza tempo.

Ancora si voltò e fuggì; e ancora una volta, dopo corse e inutile girovagare, si ritrovò all'inevitabile stagno.

Sentendosi il cuore di piombo e scacciata la disperazione e il terrore, si rassegnò e non fece più nessun tentativo di fuga. La sua volontà era obnubilata, annientata da una forza superiore che non permetteva la più piccola resistenza; e si sentì incapace di reagire quando un prepotente impulso guidò i suoi passi lungo il margine acquitrinoso verso il castello.

Quando si avvicinò, vide che l'edificio era cintato da un fossato di acqua stagnante ricoperta dall'iridescente schiuma della putredine. Il  ponte levatoio era abbassato, e il cancello aperto come in attesa di un ospite in arrivo. Continuava a non esserci alcun segno di vita; i muri incombenti della grigia costruzione, lo spiazzo e il cortile interno, erano avvolti da un silenzio sepolcrale.

Guidato dallo stesso potere che lo aveva condotto fin lì, attraversò il ponte levatoio e, passando sotto il minaccioso barbacane, arrivò in una corte deserta. Finestre con le sbarre lo guardavano senza espressione; dalla parte opposta del cortile, una porta stranamente aperta rivelava uno scuro atrio. Come si avvicinò, vide una persona ferma sulla soglia, anche se un istante prima avrebbe giurato fosse completamente priva di qualsiasi forma vivente.

Gerard aveva sempre il suo bastone di carpine e, sebbene la ragione gli dicesse che quell'arma era completamente inutile contro un pericolo soprannaturale, un oscuro istinto lo portò a stringerlo saldamente mentre si accostava alla figura.

L'uomo, dall'aspetto cadaverico, era straordinariamente alto, vestito con abiti neri   dal  taglio  antiquato;  le  sue  labbra  spiccavano  stranamente  rosse  nel

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pallore del viso ricoperto da una barba azzurrognola, e assomigliavano a quelle della donna che era scomparsa così misteriosamente con i suoi assalitori. Gli occhi erano pallidi e luminosi, come la luce della palude.

Gerard rabbrividì sotto il suo sguardo, e all'ironico sorriso agghiacciante che sembrava tenere in serbo un mondo di segreti troppo terribili e orrendi per volerli scoprire.

«Io sono il Signore di Malinbois» annunciò lo strano individuo con un tono allo stesso tempo untuoso e cupo che servì soltanto ad aumentare il senso di ripugnanza del menestrello. Attraverso il movimento delle labbra scorse una fila di denti stranamente bianchi e appuntiti, simili a quelli di qualche bestia feroce.

«La fortuna ha voluto che voi diveniste mio ospite e, anche se la mia ospitalità non sarà adeguata e troverete la mia dimora piuttosto lugubre, il mio benvenuto è sentito e sincero».

«Vi ringrazio infinitamente per la vostra cortesia», rispose Gerard, «ma avevo un appuntamento con un amico e stupidamente ho perso il cammino. Vi sarei molto grato e riconoscente se voleste indicarmi la strada per Vyones. Ci dovrebbe essere un sentiero non lontano da qui che ho abbandonato».

Le parole suonarono vuote e senza speranza alle sue stesse orecchie e il nome che il suo ospite gli aveva dato, Signore di Malinbois, toccava la sua mente come rintocchi funebri sebbene, al momento, non riuscisse a ricordare quale idea macabra e spettrale quel nome evocava.

«Sfortunatamente, non ci sono sentieri dal mio castello a Vyones» replicò l'uomo. «Riguardo al vostro appuntamento, lo avrete in un altro modo e in luogo diverso da quello convenuto. Insisto perché accettiate la mia ospitalità. Entrate, vi prego, ma lasciate fuori il vostro bastone. Qui non ne avrete bisogno».

A Gerard parve che alle ultime parole facesse una smorfia di avversione e di disgusto, e l'enfasi con cui aveva parlato fece sorgere nella sua mente ulteriori macabri pensieri; ma solo più tardi riuscì a capirne il motivo. In ogni caso era deciso a tenere la sua arma, anche se inutile contro gli spettri.

«Vi prego di scusarmi ma, da quando ho ucciso due vipere, ho fatto voto di tenerlo sempre con me, alla portata della mia mano destra».

«È uno strano voto», replicò il suo ospite, «comunque portatelo pure; a me non importa se volete essere impacciato da un bastone di legno».

Si voltò bruscamente facendogli segno di seguirlo. Il menestrello obbedì controvoglia, voltandosi a dare un'ultima occhiata al cielo aperto e al cortile deserto. S'accorse, quasi senza sorpresa, che un'improvvisa oscurità senza luna e senza stelle aveva avvolto il castello, quasi come se avesse aspettato che lui entrasse prima di calare. Era densa come il fumo, senz'aria, e stagnante come il buio di un sepolcro piombato da secoli. Varcando la soglia provò un'oppressione reale, una difficoltà sia psichica che fisica di respirare.

S'accorse che nel buio androne bruciavano delle torce, anche se non aveva visto quando e come erano state accese.

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L'illuminazione era vaga e indistinta, e le ombre affollavano l'atrio, stranamente numerose, muovendosi con una misteriosa inquietudine, sebbene le fiamme stesse fossero immobili come candele che bruciano presso

un catafalco in una stanza senz'aria.

Alla fine di un corridoio, il Signore di Malinbois aprì una pesante porta in legno spesso e scuro. Nella stanza che apparve, evidentemente la sala da pranzo del castello, diverse persone erano sedute ad un lungo tavolo illuminato da una luce non meno cupa e tetra di quella dell'entrata.

I loro visi erano in penombra e alterati dalla strana e incerta luminescenza, tanto che Gerard trovò difficile distinguere le figure raccolte attorno alla tavola dalle ombre circostanti. Tuttavia riconobbe la donna dall'abito color smeraldo che era svanita misteriosamente e, al suo fianco, pallida, disperata, terrorizzata, Fleurette Cochin. All'estremità del tavolo, riservata ai dipendenti e agli inferiori, c'erano la governante e il domestico che avevano accompagnato Fleurette all'appuntamento.

Il Signore di Malinbois, con un'aria divertita e sardonica, si voltò verso il menestrello.

«Io credo che conosciate già le persone qui presenti. Ma non siete stato ancora ufficialmente presentato a mia moglie che siede a capotavola. Agata, ti presento Gerard de l'Automne, un giovane e rinomato menestrello».

La donna accennò con il capo leggermente e indicò una sedia libera di fronte a Fleurette. Gerard si sedette, mentre il Signore, secondo gli usi feudali, si accomodava a capotavola al fianco della moglie.

Ora per la prima volta, Gerard notò che c'erano dei servitori che entravano a uscivano dalla stanza, portando sulla tavola vini e vivande. Si muovevano velocemente e silenziosamente ed era difficile distinguere i loro visi e i loro abiti; sembravano muoversi in un'ombra impalpabile e sinistra. Ebbe però la sgradevole sensazione che fossero i tre demoniaci individui che si trovavano con la donna.

Il cibo aveva un aspetto macabro e irreale. Avrebbe voluto porre centinaia di domande sia ai padroni di casa che a Fleurette ma, oppresso e terrorizzato da quella situazione da incubo, poteva solo guardarla negli occhi i quali esprimevano la sua stessa angoscia e paura. Gli ospiti tacevano lanciandosi delle occhiate furtive al di sopra dei cibi, mentre i due servitori di Fleurette erano paralizzati dal terrore come uccelli spauriti sotto lo sguardo ipnotico di un serpente.

Le vivande avevano uno strano sapore e, attraverso il topazio e il violetto dei vini stravecchi, sembrava di vedere fiamme inestinguibili di secoli sepolti: Gerard e Fleurette riuscirono appena a toccarli, mentre i padroni di casa non bevvero e non mangiarono nulla.

L'illuminazione della stanza s'affievolì, e i movimenti dei servitori diventarono sempre più furtivi e spettrali. L'aria densa era impregnata da una subdola minaccia, satura di una oscura e letale necromanzia. Al di sopra degli aromi dei cibi  e  del bouquet dei vini, si  levava  il tanfo soffocante della muffa

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della stanza unito allo strano odore di stantio sepolcrale che sembrava emanare dalla castellana.

Ora a Gerard vennero in mente i vari racconti sulla leggendaria Averoigne, che aveva ascoltato e non creduto; si ricordò della storia del Signore di Malinbois e della sua dama che erano stati sepolti centinaia di anni prima e le cui tombe venivano evitate dai paesani poiché, si diceva, essi continuavano le loro stregonerie anche nella morte.

Si domandò quale influenza avesse obnubilato la sua memoria quando, sentendo prima quel nome, non si era ricordato di nulla. Ora si sovveniva di altre cose e di altre storie, e tutte confermavano la sua istintiva avversione verso quegli individui di cui era caduto prigioniero. Si ricordò, inoltre, la superstizione folkloristica di cui godeva il bastone in legno e quale uso ne venisse fatto, e capì immediatamente perché il Signore di Malinbois lo aveva guardato allarmato. Quando si era seduto lo aveva posto vicino alla sua sedia e ora, assicuratosi della sua presenza, lentamente e senza farsene accorgere lo spostò sotto i piedi.

La lugubre cena ebbe termine e i castellani si alzarono.

«Vi condurrò ora alle vostre stanze» disse l'ospite, abbracciando tutti  con un'unica oscura occhiata imperscrutabile. «Se lo desiderate, ognuno di voi può avere una propria stanza; a meno che Fleurette Cochin e la sua governante Angelique dormano insieme, e il domestico Raoul nella stessa stanza di Messer Gerard».

L'idea della solitudine in quel castello misterioso, all'avvicinarsi della mezzanotte, non arrideva a nessuno, così Fleurette e Gerard, di comune accordo, scelsero la seconda soluzione.

Si recarono tutti e quattro nelle stanze che si trovavano all'estremità opposta del lungo e tenebroso corridoio e, sotto lo sguardo penetrante dei due padroni di casa, Fleurette e Gerard si scambiarono un tremulo e sgomento buonanotte: il loro incontro era ben diverso da ciò che avevano desiderato, ed erano tutte e due sopraffatti dalla situazione soprannaturale in cui erano piombati, prede di stregonerie e indubbi terrori.

Come l'ebbe lasciata, Gerard si accusò di vigliaccheria per non essere stato capace di imporsi al suo fianco; ma si sentiva obnubilato nelle sue facoltà mentali da un potere dominante che cancellava ogni sua volontà.

La camera assegnatagli era dotata di un giaciglio e di un grande letto a baldacchino di foggia antiquata. Suggestive candele dalla forma funerea bruciavano fiocamente nell'ambiente stagnante ed ammuffito.

«Possiate avere un sonno profondo», disse il Signore di Malinbois; e queste parole furono seguite da un sorriso non meno inquietante del tono sepolcrale con cui erano state pronunciate. Gerard e il suo servitore si sentirono sollevati solo quando uscì dalla stanza chiudendo la porta dietro di sé; sollievo che passò quando sentirono la chiave girare nella toppa.

Gerard ispezionò la camera; andò ad una finestra e, attraverso i piccoli vetri incassettati e  spessi,  riuscì  solo a  vedere  la  fitta  e  palpabile  oscurità  della

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notte, come se l'intero posto fosse sotterrato e rinchiuso dentro fango liquido. Poi, in un accesso di rabbia all'idea di essere separato da Fleurette, si gettò contro la porta scuotendola e battendovi contro i pugni con tutta la sua veemenza. Trovando inutile la sua follia, rinunciò e si voltò verso Raoul.

«Bene, Raoul, cosa ne pensi di tutto ciò?»

La sua faccia aveva assunto un'espressione di paura mortale e, prima di rispondere, si fece il segno della croce.

«Penso, Messere, che tutti noi siamo stati adescati da una stregoneria malefica e che voi, io, la damigella Fleurette e la sua governante Angelique, siamo tutti in un grave pericolo, sia del corpo che dell'anima».

«Questa è anche la mia convinzione. Penso quindi sia meglio che dormiamo a turno e, che chi starà sveglio, debba tenere in mano il mio bastone alla cui estremità fisserò il pugnale. Sono sicuro che in caso di necessità lo saprai usare contro un eventuale intruso e, senza dubbio, viste le persone e le loro intenzioni, qualcosa succederà. Ci troviamo in un castello che normalmente non dovrebbe esistere e i cui padroni sono morti centinaia di anni fa, o si suppone siano morti, per cui deduco che, quando escono all'aperto, siano inclini ad usanze che non desidero approfondire».

«Sì, Messere», sussurrò Raoul, ma guardò con interesse la possibile arma. Gerard aguzzò la punta del bastone come la punta di una lancia, nascose con cura i trucioli, e intagliò anche, a circa metà del bastone, una piccola croce pensando che questa potesse incrementare l'efficacia di una difesa. Poi, con l'arma in mano, si sedette sul letto dove, da dietro le cortine, avrebbe potuto sorvegliare la stanza.

«Dormi tu per primo» disse a Raoul, indicandogli il giaciglio che si trovava vicino alla porta.

I due parlarono per qualche minuto sottovoce; Gerard apprese come Fleurette, accompagnata da loro, fosse stata attratta dall'urlo di una donna fra i pini e come anche loro fossero stati incapaci di ritrovare il cammino. Poi, cambiando discorso, affrontò altri argomenti cercando di distrarre i suoi pensieri dalla preoccupazione per la salvezza di Fleurette.

Improvvisamente, s'accorse che Raoul non gli rispondeva più e vide che il servitore si era addormentato. Nello stesso istante, si sentì assalire da una strana sonnolenza, contro la sua stessa volontà, e a dispetto dei terrori e dei presagi che s'affollavano nella sua mente.

Attraverso il torpore udì come un fruscio di ali; era un mormorio sibilante di varie voci, simili a quelle dei domestici, che rispondevano alle litanie di Stregoni; inoltre gli parve di sentire il rumore di passi affrettati, nei loro passaggi segreti e malefici, provenire da ogni stanza del castello, anche dalle più lontane. Ma l'oblio lo teneva impigliato fra le maghe di una rete nera che si chiuse implacabilmente sui suoi pensieri turbati, soffocando l'apprensione nei suoi sensi agitati.

Quando Gerard si svegliò, le candele erano diventate moccoli ed un triste chiarore senza sole filtrava attraverso le finestre.

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Il bastone era sempre fra le sue mani e, sebbene i suoi sensi fossero ancora intorpiditi dal pesante sonno che lo aveva colto, vide che non gli era successo nulla. Guardando però attraverso le cortine, vide che Raoul giaceva mortalmente pallido ed inerme, con l'aspetto e lo sguardo di un moribondo.

Attraversò la camera e s'inginocchiò vicino al servitore. Aveva una piccola ferita rossa sul collo; il battito del suo polso era lento e flebile come di chi ha perso molto sangue e tutto il suo aspetto lo stava a dimostrare. Sentì un lezzo di spettro levarsi dal giaciglio; lo stesso che si avvertiva esalare dalla castellana Agata.

Riuscì, alla fine, a risvegliare l'uomo; ma Raoul era molto debole ed assonnato, e non riusciva a ricordarsi ciò che era successo nella notte; ma, quando scoprì la verità, il suo orrore fu pietoso a vedersi.

«La prossima volta toccherà a voi, Messere», gridò. «Questi vampiri ci terranno qui in mezzo alle loro profane necromanzie fino a che ci avranno succhiato l'ultima goccia di sangue; i loro sonniferi sono la mandragora e lo sciroppo del Cathay ai quali nessun uomo può resistere».

Gerard provò la maniglia della porta e stranamente la trovò aperta; il vampiro che era uscito, ottenebrato dalla sua sazietà, doveva aver commesso una disattenzione. Il castello era tranquillo, e Gerard pensò che gli spiriti del diavolo fossero ora placati, e che le ali dell'orrore e della malignità, i passi affrettati, le litanie degli Stregoni, e le risposte dei domestici fossero cullati in un profondo sonno anche se temporaneo.

Aprì la porta e, in punta di piedi, attraversò il corridoio e andò a bussare alla porta di Fleurette; questa, completamente vestita, gli aprì subito ed egli la prese fra le braccia senza dire una parola, scrutando il suo pallido viso con tenera ansietà. Al di sopra delle sue spalle vide che l'ancella era ancora distesa nel giaciglio; sul bianco collo spiccava un segno rosso e, prima che Fleurette parlasse, capì che anche a loro era accaduta l'identica cosa capitata a lui e al suo servitore.

Mentre cercava di confortare e rassicurare Fleurette, la sua mente si poneva dei problemi alquanto particolari. Nessuno girava per il castello e sicuramente il Signore di Malinbois e la sua castellana, erano addormentati dopo il festino notturno di cui avevano senz'altro goduto. Immaginò chiaramente il posto e il modo in cui dormivano, e sentì nascere dentro di sé una certa idea.

«Stai tranquilla cara» disse a Fleurette, «Ho in mente un modo per fuggire da questa abominevole rete di incantesimi; ma ti devo lasciare per un po', in quanto devo parlare nuovamente con Raoul dato che avrò bisogno del suo aiuto».

Ritornò nella sua camera dove trovò il servitore che, seduto sul giaciglio, si faceva il segno della croce e pregava con voce flebile e sommessa.

«Raoul, ascoltami» gli disse con un tono un poco duro, «Raccogli tutte le forze e vieni con me. Fra tutti questi muri che ci circondano, l'oscuro immenso atrio, le  alti torri, i  bastioni, c'è solo  una  costruzione  reale: tutto il

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resto è creato solo dall'illusione. Con la fede e la costanza di ferventi Cristiani quali siamo, noi dobbiamo cercarla e trovarla. Vieni: ora ispezioneremo il castello prima che i vampiri si sveglino dal loro sonno letargico».

Fece strada lungo tortuosi corridoi con la velocità di chi ha già un piano prestabilito; aveva ricostruito nella sua mente l'architettura del castello come gli era apparsa all'arrivo, e aveva pensato che il massiccio torrione, essendo il centro e la roccaforte dell'edificio, doveva essere il posto che lui cercava.

Con il bastone in mano e Raoul che si trascinava esangue dietro di lui, attraversò diverse porte di camere segrete, passò sotto varie finestre che davano sui cortili interni e, alla fine, giunse al pianterreno di quello che riteneva il torrione.

Era una larga e spoglia sala interamente in pietra, illuminata solo da strette feritoie situate in alto, che erano state destinate agli arcieri. Il posto era molto oscuro, ma Gerard riuscì a distinguere i profili di una cosa - anche se ordinariamente può essere inaspettata e insolita - che s'innalzava nel mezzo della sala. Era una tomba di marmo.

Accostandosi, vide che il passare del tempo l'aveva ricoperta di licheni giallo-grigi, come possono nascere solo dove non entra la luce del sole. Il lastrone che la ricopriva era molto largo, e così massiccio che per sollevarlo era necessaria tutta la forza di due uomini.

Raoul stava stupito davanti alla tomba.

«Che cosa c'è adesso, Messere?», domandò.

«Tu e io, ci siamo introdotti nella camera da letto dei nostri ospiti».

Ad un suo ordine, Raoul si mise da una parte del lastrone e Gerard dall'altra; poi, con uno sforzo erculeo che stirò le ossa e i tendini quasi al punto di rottura, cercarono di rimuoverlo; ma la pietra si mosse appena. Alla fine, dopo averlo afferrato contemporaneamente dalla stessa parte, riuscirono a inclinarlo; quello scivolò e crollò sul pavimento con uno schianto tremendo.

Nella tomba aperta videro due bare scoperchiate le quali contenevano una, il Signore Hugh di Malinbois e l'altra, la sua Signora Agata.

Tutti e due dormivano con l'aria pacifica di un bambino; un'espressione di tranquilla cattiveria, di pacifica malignità era impressa sui loro volti; e le loro labbra erano tinte di un rosso più vivo di prima.

Senza alcuna esitazione o indugio, Gerard affondò il suo bastone affilato nel petto del Signore di Malinbois; il corpo si sgretolò come se fosse stato impastato con la cenere e solo dipinto a somiglianza umana. Alle narici di Gerard giunse il malaticcio odore di corruzioni passate. Quindi colpì nello stesso modo il petto della castellana.

Contemporaneamente alla loro disgregazione, i muri e il pavimento del torrione parvero dissolversi come foschi vapori, e rotolarono via in ogni parte con l'urlo di un tuono non udito.

Con un senso di profonda vertigine e confusione, videro che l'intero castello era svanito come le nubi di un temporale passato; e lo stagno e i suoi relitti galleggianti non offrivano più alla vista le loro malefiche illusioni.

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Si trovavano in piedi in una radura della foresta alla piena luce del sole del pomeriggio e, tutto ciò che rimaneva del castello, era una tomba vuota ricoperta di licheni, accanto a loro.

Fleurette e la sua ancella erano un poco più distanti. Gerard corse dall'amata e la prese fra le braccia. Lei era meravigliata e stupita come uno che si risveglia da un sogno notturno di incubi demoniaci e trova che tutto è passato.

«Io credo, dolcezza», disse Gerard sorridendo, «che il nostro prossimo appuntamento non verrà più interrotto dal Signore di Malinbois e dalla sua castellana».

Ma Fleurette era ancora attonita e poté solo rispondere con un bacio.

 

FINE

(Trad. Teobaldo del Tanaro e Ina Paparella Morata)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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